Un nuovo appuntamento con uno dei guest post di Susanna Trippa, un racconto intitolato Dal Nepal a Mahabalipuram.
Questo fa parte di alcuni racconti On The Road sul “viaggiare nei primi anni Settanta”, estrapolati dal suo romanzo Come cambia lo sguardo.
La ringraziamo di cuore per questi racconti di viaggio , che sono sempre affascinanti, potete anche leggere Viaggio nel tempo: A Bologna nei primi anni Settanta.

Dal Nepal a Mahabalipuram

Dal caldo monsonico di Delhi decidemmo, d’un tratto, di passare al verdissimo Nepal.
Il miraggio era vedere l’Annapurna, che però rimase nascosta tra le nubi di quel periodo per tutto il tempo.
A Katmandu ci arrivammo con un piccolo aereo che pareva finto e alloggiammo in un alberghetto, tutto di legno scuro e vecchio, che sapeva di Trentino.
Anche i colori, tanto rosso e verde, mi ricordarono il Trentino, ma tutto era più polveroso.
Ricordo bene anche la camera perché, da un angolo, vidi uscire un topo che si mise a scorrazzare avanti e indietro; schizzai giù per le scale a chiedere aiuto nel mio inglese inesistente; quando capirono di cosa si trattava si misero a ridere, poi arrivarono flemmatici con una ramazza.

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Ma uscivi dall’albergo… e dietro l’angolo c’era Durbar Square!

Durbar Square con i suoi templi induisti finemente istoriati, a dispetto dell’ennesima Freak Street, era di una bellezza incredibile. Adesso si paga il biglietto per entrarci; allora invece di turismo ce n’era poco, solo qualche fricchettone come noi.
Ricordo una sera. Era tardi. La piazza deserta.
Accoccolati nel portico alto di un tempietto, stavano dei vecchi sorridenti e fumavano tranquilli.
Mi fermai a guardarli: l’atmosfera era magica e delicatissima… come se potesse cambiare, sparire al minimo soffio. Avvertirono il mio incanto per loro… per tutto quanto.
E m’invitarono. Mi ritrovai a salire i gradini e a starmene là per un po’.

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Furono istanti preziosi: lontanissima da casa e dal mio mondo, tutto andava bene in quella notte buia… a fumare in silenzio insieme a quei vecchi.
Vedemmo poi, alto tra le nuvole, Boudanath, il grande stupa sormontato dall’occhio benevolo del Buddha. Le bandierine colorate mosse dal vento… e poi i cilindri metallici che monaci in tonaca rossa e pellegrini, camminando in cerchio, facevano girare in senso orario.
E io che allora non capivo niente. Delle preghiere che così si liberavano nell’aria… e di ogni altro simbolismo sottile del buddismo. Della spiritualità che vagava in quei luoghi… al di là del caldo, delle mosche e di ogni altro disagio.

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Nepal: Seguirono giorni a Pokhara, sul lago, e poi tornammo in India.

A Delhi prendemmo un treno su cui saremmo stati per un giorno e due notti, direzione Madras.
I finestrini avevano le sbarre, probabilmente per maggiore sicurezza dei passeggeri; noi viaggiavamo in seconda classe, la terza ce l’avevano vivamente sconsigliata.
Dormimmo in cuccette di legno su cui stendemmo i nostri sacchi a pelo leggeri, ch’erano poi lenzuoli cuciti insieme dalle nostre mamme.
Nello stesso scompartimento, di fronte a noi, stava seduto un indiano benestante accompagnato dal figlio.
Era educatissimo e gentile, con la sua camiciola a mezze maniche e quel taschino, proprio sul cuore, da cui traeva monetine che distribuiva ai poveri.
Ritornava a casa con una tanica, che ci mostrò sotto la panca, colma di acqua sacra del Gange.
Sorrideva mentre con la mano destra, come usano loro, mangiava composto dal vassoio a scomparti che ci distribuivano ai pasti.
Alle fermate salivano svelti dei bambini, spesso con un moncherino, che litigavano tra loro per avere il privilegio di sfregare il pavimento con uno straccio sporco, per poi tendere la mano.

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A volte il treno stava fermo parecchio e si poteva anche scendere.

Nelle stazioni vendevano da mangiare e da bere; prendemmo delle uova sode che ci tendevano ma, una volta sgusciate, non riuscii a mangiarle vedendo la fame negli occhi di tutti.
Al mattino presto, ancora indolenzita dalla notte sul tavolaccio, osservavo nel giorno che si svegliava la vita dei villaggi, oltre le rotaie, con quel verde pisello degli alberi tra cui spuntavano le capanne.
Poco più in là un uomo accovacciato, con un filo d’acqua che scendeva da un tubo arrugginito, si lavò i denti per tutto il tempo, e non fu poco, che il treno rimase fermo in mezzo alla campagna.

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Arrivammo.

Senza neanche un’occhiata a Madras, ci precipitammo a Mahabalipuram sull’oceano Indiano.
Stavamo al sole e mangiavamo cocco, che un indiano tamil ci prendeva dall’albero arrampicandosi fin su in cima.
Ci chiese poi dei soldi in prestito, raccontandoci non so più che storia; non rivedemmo né lui né i soldi; e così, addio anche al cocco sulla spiaggia!
Mangiavamo anche crabs – i granchi – che costavano pochissimo e bevevamo tanto chai, il loro tè col latte, che variava la nostra bevanda abituale di acqua e amuchina.
Adesso vedo su internet che, nei pressi di Mahabalipuram, ci sono templi meravigliosi – ora dichiarati patrimonio dell’Unesco – li vedemmo? non me lo ricordo.

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Mahabalipuram allora era un paesino, con quei maialini scuri che ci passeggiavano accanto per le stradette sterrate, e in realtà le tenevano pulite perché divoravano ogni rifiuto.
Alla domenica, dalle città vicine arrivavano gruppi di indiani benestanti con quelle grandi, belle ceste di vimini per il picnic. Si capiva che vivevano bene dagli abiti, dalle auto, ma soprattutto perché erano più in carne degli altri.
Le donne, con bellissimi sari colorati, giocavano sulla riva dell’oceano tra spruzzi d’acqua e vento.
I raggi del sole al tramonto mandavano bagliori sulla loro pelle, sui bracciali tintinnanti, sulla seta.

Pensai che pareva una foto di Cartier Bresson. Ne aveva scattate tante di foto così in India…

Ma subito aggiunsi tra me che nessuna di quelle foto, pur bellissime, avrebbe potuto rendere davvero l’atmosfera dell’India perché, nelle immagini, mancano il caldo, gli odori e le mosche.
Ultimo ricordo di quei giorni a Mahabalipuram: dopo una notte con febbre alta e un male terribile ad un benedetto dente del giudizio che non voleva nascere – e la cosa era significativa – andai, il mattino dopo, nell’ambulatorio del paese. Scettica, mi presentai ad una dottoressa indiana, giovane e bella, che mi diede un’occhiata e poi mi mise in mano un sacchettino di carta con dentro un miscuglio di polverine.
Me ne andai con poche speranze di star meglio, e invece… già il giorno dopo stavo benissimo.

Ritornai dall’India senza comprendere il perché dei viaggi in Oriente e cosa poi mi avessero lasciato. A tratti stregata, ma anche impaurita e a disagio per le enormi differenze, non provai nostalgia. Adesso chissà come sarebbe?
Forse comprenderei di più la grande spiritualità dell’anima che va oltre l’individuo?
O anche realisticamente: dopo più di quarant’anni, l’India potrebbe essere così cambiata da non parere così “estrema” come mi parve allora?

                                                                                                          (fine)

Se volete conoscere meglio Susanna Trippa, potete leggere le recensioni e le interviste all’autrice dei romanzi Il viaggio di una stella e I racconti di CasaLuet.

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