Eccoci con un nuovo appuntamento con uno dei guest post di Susanna Trippa, un racconto su quando si viaggiava in autostop.
Questo è il primo di alcuni racconti sul “viaggiare nei primi anni Settanta”, estrapolati dal suo romanzo Come cambia lo sguardo.
La ringraziamo di cuore per questi racconti di viaggio , che sono sempre affascinanti, potete anche leggere Viaggio nel tempo: A Bologna nei primi anni Settanta.

Quando si viaggiava in autostop…

Eravamo noi quelli vicini alle stelle. Zaino, sacco a pelo e autostop: l’illusione d’arrivare dappertutto… andando e andando… come con il monopattino.

On the road.

La premessa fu un’estate nell’isoletta greca di Paros, ma il grande progetto era quello di muoversi in autostop e arrivare ben più lontano.
Già sulla tangenziale di Bologna prendemmo un passaggio fantastico fin quasi a Brindisi.
E si trattava di un camionista: un pugliese paterno che di notte, mentre guidava, ci lasciò dormire nella sua cabina.
A un certo punto però ci svegliò, ci portò all’autogrill e là regalò a entrambi un enorme panino imbottito.

FCOM 18app marzo 2023

Si viaggiava così in quegli anni: in autostop, in pullman e, chi l’aveva, col furgone. In Iran e in Afghanistan avremmo poi visto tante coppie di stranieri – americani o del Nord Europa – con bambini biondi come loro, in giro su furgoni per mesi e mesi.
La rivoluzione di quello ch’era stato il Sessantotto, o comunque quanto vi gravitava attorno, si vedeva anche nel modo di viaggiare.
Se si era un po’ prudenti, allora che si era in molti sulle strade, anche fare l’autostop era poi sicuro.
Si era davvero in tanti, con il sacco a pelo e lo zaino, per strada.
E sui traghetti, a dormire sul ponte, dove il vecchio legno si bagnava di salsedine.
Scendeva la notte e scompariva, nel buio fondo, anche la scia spumeggiante della nave dove fino a poco prima si erano tuffati i gabbiani a banchettare.
Cresceva il silenzio mentre, sdraiati a faccia in su, guardavamo in alto dove, nel cielo profondo, miriadi di stelle si burlavano del fumo nero che usciva dalla nave.

Era come se si potesse ribaltare tutto.

Pareva che noi, così giovani e senza soldi, saremmo potuti diventare padroni del mondo.
Eravamo noi quelli vicini alle stelle.
Zaino, sacco a pelo e autostop: l’illusione d’arrivare dappertutto, andando e andando… come con il monopattino.
Il viaggio era quello che volevamo, quello che contava… diventava una febbre… andare e andare.

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Il film Easy rider e Sulla strada di Kerouac erano le nostre icone.

D’altra parte, al di là delle sensazioni di quegli anni, viaggiare ha sempre significato tanto.
Ha significato crescere e capire, persino guarire ferite.
Perché sì, il tempo, ma anche lo spazio che si mette tra noi e qualcosa o qualcuno può servire.
Da sempre, viaggiare è una medicina.
Lo sapeva bene Tolstoj quando trasportò in viaggio la sua Kitty per dimenticare il principe Vronskij.
E di nuovo quando, vecchio e infelice alla fine dei suoi giorni, se ne andò via dalla casa e da tutto, come per estrema disperata medicina.

Se volete conoscere meglio Susanna Trippa, potete leggere le recensioni e le interviste all’autrice dei romanzi Il viaggio di una stellaI racconti di CasaLuet.

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