Rieccoci con la seconda parte del guest post di Cristina Pellegrino, che ci racconta la sua esperienza a Dubai.
Cristina si reputa vagabonda nel mondo, nel 1999 partì per l’Erasmus in Germania e non è più tornata a casa!
Se vi siete persi la prima parte del racconto potete leggerlo cliccando sull’articolo Dubai… Ai miei tempi (prima parte).

In quanti conoscono il nome originario del Burj Khalifa?

Il motivo per il quale durante il secondo lockdown mi sono messa a cercare “Dubai” su internet è stato questa moda da parte di VIP, influencer e blogger 4.0 di ogni tipo e specie di volare a Dubai perché “fa fico”.
No, no, nulla contro di loro, ma mi chiedo: quanti di loro sanno che il nome originario del Burj Khalifa era Burj Dubai.
E perché è stato cambiato?
C’è qualcuno che sa chi sia, o cosa sia, sto Khalifa? E poi, dai, voi arrivate a Dubai e ve la trovate bell’e pronta la Torre più alta del mondo.

Io, invece, l’ho vista crescere! Sì, perché quando arrivai io a Dubai, il Burj Khalifa, era alto sì e no 500 metri.
Era un mezzo scheletruccio metallico e la struttura che vedete oggi che richiama la forma di un Hymenocallis, ai miei tempi la si riusciva a vedere solo se si aveva un’immaginazione imbarazzante. 
Ai miei tempi il Burj Khalifa era un ammasso di ferro e cemento e quando ci si avvicinava abbastanza, l’unica cosa che si riusciva a vedere erano le migliaia di caschi gialli indossati dagli operai che sembravano più delle formiche che degli esseri umani, tanto erano ridicolmente minuscoli rispetto al resto.
Altro che Armani Hotel e appartamenti di lusso. Queste sono le soddisfazioni.

dubai seconda parte

Il Dubai Mall

Di Dubai Downtown ai miei tempi oltre al The Adress, ricordo il Dubai Mall che prendeva sempre più forma sino a quando fu aperto, diventando così ufficialmente il centro commerciale più grande del mondo con i suoi mille e cinquecento negozi e il parcheggio più spaventoso che io abbia mai visto (e dove più volte ho impiegato ore  e ore per ritrovare la mia macchina).
Della Dubai Fountain, ai miei tempi, si riusciva a malapena a riconoscerne gli ugelli (no, non gli augelli!).
C’era sabbia dappertutto, era un cantiere a cielo aperto.
Ma quando il progetto fu ultimato, che bellezza assistere a quello spettacolo che avevo aspettato per più di un anno! Sembravo una bambina al luna park.

Palm Island

Quanti di questi serial blogger conoscono la storia delle Palme? Sì, perché è facile prendere un taxi e dire al tassista pakistano “mi porti sulla Palma” o prendere la metro. 
Ai miei tempi la metro era ancora in costruzione e di autobus nemmeno l’ombra, se non quelli che andavano nei compounds a prendere gli operai per portarli a lavoro.
Quanti di voi sanno che in realtà le palme progettate dalla gigantesca Nakheel avrebbero dovuto essere tre?
Palm Jumeirah avrebbe dovuto avere due sorelle minori, che poi “minori”, mica tanto, anzi!
Palm Jebel Ali (verso la parte sud di Dubai, vicino al porto Jebel Ali) e Palm Deira, la più grande in assoluto.
Il cui tronco (solo il tronco!) avrebbe dovuto misurare 2 km, situata nella parte vecchia della città.

The World Dubai

Per non parlare poi di “The World Dubai”, il complesso di isole che avrebbe dovuto formare il mondo.
Già, devo purtroppo usare il condizionale passato perché tanti dei quei progetti che avevo studiato, seguito, raccontato, atteso, immaginato, sognato, non hanno ancora visto la luce e alcuni, ahimè, mai la vedranno.
Tanto che Palm Deira, che era stata iniziata già da un bel po’ prima del mio arrivo, è stata convertita in un insieme di isolette che rispondono al nome di Deira’s islands.
E il “Mondo” è completamente disabitato a parte il Libano, se non sbaglio.
Ricordo che quasi ogni giorno compravo i giornali locali, il Gulf News, il Khaleej Times o The National Dubai per seguire l’andamento dei lavori di quei progetti.
E puntualmente con occhi assetati cercavo qualche trafiletto che svelasse quale isola fosse stata venduta.

Quando trovavo qualcosa, ero felice come una Pasqua e non vedevo l’ora di dare quella notizia in anteprima ai miei ospiti.
In più cercavo di capire anche l’andamento del mercato immobiliare con i suoi numeri da capogiro, dato che sempre più ospiti, soprattutto italiani, me lo chiedevano.
Certo, non ero obbligata, era diventata una deliziosa abitudine perché ero semplicemente curiosa.
Quando poi sono tornata in Europa, gli articoli che per un motivo o per l’altro mi erano piaciuti di più, li ho ritagliati e portati con me.
Così come nessuno mi aveva costretta a leggere il Corano.
Ma lo feci per approfondire un aspetto così importante di quella cultura della quale ero ambasciatrice.
E sinceramente c’era anche tanta curiosità nei confronti della figura della donna.
Volevo capirlo, quel paese. Per viverlo al meglio!

La crisi economica

Quelli che ho vissuto io a Dubai erano gli anni della crisi economica. Neanche il deserto riuscì ad “insabbiare le prove”.
Per me era una specie di “vedo non vedo”, nel senso che i soldi continuavano a girare in città, i turisti continuavano a riempire le strade e le spiagge durante il giorno e anche per il popolo della notte, del quale facevo orgogliosamente parte, nulla era cambiato.
Discoteche e locali sempre pieni, dalla Sheik Zayed Road fino a Madinat Jumeirah e Dubai Marina; le solite file chilometriche per accaparrarsi un taxi all’uscita che neanche a New York a capodanno; lo shopping sfrenato tra Gucci, Jimmy Choo, Louis Vuitton, Hermes e compagnia bella non si era arrestato.
Anche il tempo di imbottigliamento nel traffico non lasciava minimamente immaginare che quella città si stesse fermando.

Anche i pulmini che trasportavano le migliaia di operai indiani, pakistani e afgani continuavano a riempire le strade e a farmi incazzare perché poi arrivavo in ritardo.
Insomma sembrava tutto normale, tutto in movimento, tutto avvolto dalla frenesia di finire al più presto i lavori e smantellare i cantieri per mostrare al mondo che la crisi a Dubai “je spicciava casa”.
Ma io la crisi anche se non la vedevo, la sentivo, la percepivo. Voci di corridoio dicevano che tizio se n’era andato, caio non si era più visto e sempronio era stato licenziato.
Ci fu un bel via vai generale in quel periodo. E poi un giorno mi fu tutto magicamente e tristemente chiaro.

Mi capitò tra le mani un giornale di cui più che l’articolo in sé, mi rimase impressa una foto che mostrava una distesa di macchine abbandonate nel parcheggio dell’aeroporto ad Al Garhoud.
Erano per lo più Ford. Gente che dall’oggi al domani parcheggiava la macchina, con ancora chissà quante rate da pagare, saltava sul primo aereo verso il proprio paese e non tornava più. 
Gente che magari il giorno prima aveva detto a colleghi e amici “A domani”. Sembra surreale, ma accadde davvero!

Booking.com

La mia prima esperienza fuori Europa

Quando ripenso a quegli anni, mi rendo conto che ero davvero felice. Dubai ha rappresentato la mia prima esperienza di vita fuori dell’Europa.
Il primo paese con una cultura e una religione così lontani dal mondo occidentale; il mio primo lavoro che racchiudeva ciò che ho sempre amato: girare per scoprire nuovi posti, parlare a non finire e farlo in tante lingue diverse.
Mi si stavano aprendo tante strade e non mi ero mai chiesta quanto sarei restata lì. Semplicemente vivevo.
Avevo il mio lavoro, le mie amicizie, le mie storie, avevo la mia famiglia acquisita fatta di expats come me, le uscite notturne per i locali, una quotidianità a volte piena di piccole e simpatiche disavventure.
Quel periodo l’ho vissuto a mille, ogni singolo istante,  e non è stata la crisi a riportarmi in Europa, bensì il terremoto dell’Aquila.

Cos’è per me Dubai

Da mesi non sento altro che parlare di questa fuga a Dubai da parte di VIP e influencer per “motivi lavorativi”.
Quando in realtà è per fare la vita da fighi in un paese che forse neanche sanno con chi confina.
Per me Dubai, quella cool, è quella dei miei tempi, quella dei cantieri a ogni angolo, quella delle Marlboro a novanta centesimi, del pieno di benzina a otto euro.
Quella del bistro afgano a Al Barsha dove si mangiava con le mani, quella delle serate passate nel deserto per sfuggire il caldo insopportabile.

dubai seconda parte

Ma anche dei commercianti del mercato dell’oro che durante il Ramadan mi facevano entrare da loro offrendomi da bere e permettendomi di fumare.
Quella di John-Aktar che mi voleva sposare e portare in Pakistan.
Le notti brave allo Zinc (chissà se esiste ancora), quella di me sull’autobus col microfono in mano a parlare felice ai miei ospiti.
Quella delle tante ballerine buttate perché le suole si erano sciolte sull’asfalto.
Di un pomeriggio intero alla centrale di polizia per aver tamponato una macchina, quella di quando fusi il motore della mia Matiz sull’autostrada per Abu Dhabi.
Quella di quando mollai un attore famoso nel mio appartamento perché non se ne voleva andare.
Questa è la Dubai figa, per me, che ha anche un lato umano. Lo so, sono di parte, ma secondo voi, la Dubai dei miei tempi avrebbe davvero attirato tutta questa gente in cerca di like facili?

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